di Maddalena Libertini
Fino al 4 maggio Palazzo Reale apre le sue sale a una collezione privata e ospita una rassegna di 80 artisti tra star internazionali come Sherman, Emin, Neshat, Ontani e talenti emergenti.
“Io vorrei che tutti quelli che vedono la mia raccolta dicessero ‘questa collezione è un trionfo poetico di umanità’, perché questa è una collezione ricercata, opera per opera, per scoprire l’espressione poetica di ogni sfaccettatura dell’animo umano”. Con queste parole l’avvocato Giuseppe Iannacone, presidente della fondazione omonima, suggerisce il legame che unisce le opere della sua raccolta esposte a Milano nella mostra “Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli. 80 artisti contemporanei”. E in effetti la logica – se di logica si può parlare quando c’è di mezzo la passione artistica – che sembra presiedere alla selezione fatta per questa occasione è quella di una empatia per la condizione umana, la sua fragilità, i suoi interrogativi esistenziali, il suo bisogno di trovare un posto nel mondo e una chiave di relazione con l’altro. Lo si può verificare attraversando le 11 sezioni in cui trovano posto nomi famosi e ben consolidati nel panorama internazionale accanto ad artisti più emergenti ed esponenti di nuove tendenze, mescolando generazioni e provenienze.
La visita alle circa 140 opere della mostra, organizzata con il supporto di Deutsche Bank e la sponsorship tecnica di ARTE Generali, si svolge sulle note dell’installazione sonora per pianoforte, synth e samples Possiamo andare da un’altra parte? curata da Dario Mangiaracina (La Rappresentante Di Lista).
L’anima contemporanea della collezione Iannacone
Se ritratto, corpo, identità sono tre parole chiave che possono accompagnare con varie declinazioni il pubblico in tutto il percorso, l’apertura affidata a Cindy Sherman ne è una esemplare manifestazione. Trasformista e multiforme per mezzo secolo di carriera, Sherman è qui rappresentata con sei fotografie di cui ben tre di una delle sue serie più famose, Untitled Film Stills, mentre il suo clown grottesco è stato scelto come immagine della comunicazione della mostra. Questo inizio setta il tono e prosegue nella sala successiva con opere raggruppate sotto il titolo “Maschere e Verità”. Qui si incontra un’altra artista che ha rivoluzionato l’uso del mezzo fotografico, Nan Goldin: Trixie on the Cot, Greer and Robert on the Bed, Jimmy Paulette and Taboo! In the Bathroom, scattate tra gli anni settanta e i novanta, si posizionano con la loro inalterata energia emotiva tra “tutta la bellezza e il dolore”, citando il titolo del film girato da Laura Poitras su Goldin. Di contro Francesco Vezzoli raffredda lacrime argentee sui volti di celebrità cristallizzandole nel ricamo metallico sulla tela. Archiviati i due nomi che compongono il titolo della mostra, c’è ancora tanto da vedere. L’identità umana è frammentaria e può essere anche inquieta, contraddittoria, sfuggente o perfino disturbante come nei quadri del belga Michaël Borremans. Può assumere una dimensione sociale e politica, senza perdere la qualità introspettiva. Nella sala dedicata alla rappresentazione della figura nera, il corpo di colore si mette in scena con fierezza nel quadro di Kehinde Wiley, sensualità disinibita in quelli di Somaya Critchlow, intensità coloristica per Jennifer Packer e lotta alle discriminazioni nelle foto di Zanele Muholi. Alla formazione di una identità culturale personale e collettiva contribuiscono miti, leggende, tradizioni ancestrali che si rigenerano negli immaginari degli artisti contemporanei. Le culture non sono isolate, si toccano, si contaminano con altre influenze, guardano indietro e avanti nel tempo. Nella sala dedicata a “Miti, memorie e modernità” affiora una nota poetica, a tratti magica, appaiono creature ibride nei collage di Wangechi Mutu, che a giugno sarà la prima artista donna vivente a esporre alla Galleria Borghese a Roma, o nei glitter e negli smalti di Raqib Shaw. Tecniche, soggetti, decorazioni vengono rivisitati da Imran Qureshi, Hayv Kahraman, Hiba Schahbaz, inoculando in un’estetica solo apparentemente canonica germi di nuove narrazioni. Nella collezione Iannacone è presente un nucleo consistente di sculture di Kiki Smith: le sue figure femminili in bronzo, porcellana, resina ricoperta di polvere di marmo, carta, sono personaggi di poemi, racconti popolari, testi sacri in connessione con il mondo naturale, talvolta incarnato da animali che diventano quasi attributi simbolici. Gli animali e l’elemento naturale tornano nella stessa sala in forme meno rassicuranti anche nell’opera di Giulia Cenci, Treesome, e in una intera sezione denominata “Bestiario Contemporaneo”. Si prestano a essere figure allegoriche come nelle favole di Esopo, in un libro medievale o in un film Disney, e in questo ultimo caso assomigliano al Bronze Rat di Banksy. Espressione della nostra crescente incapacità di comprendere la natura nella nostra vita, specchio delle nostre paure e stati d’animo, come Bear di Nathalie Djurberg & Hans Berg, possono assumere le forme in metamorfosi di mostri bizzarri e meravigliosi e diventare Cremaster 5: Her Giant di Matthew Barney. Strane presenze sono anche le donne iraniane della serie Like Everyday di Shadi Ghadirian, obliterate da chador colorati e con il volto coperto da utensili da cucina, private di connotati umani. Il tono politico che è sotteso alle opere dell’artista iraniana riconduce il tema dell’identità nell’intersezione che sta tra la sfera privata e quella pubblica, di cui è maestra Tracey Emin con le sue autoesposizioni biografiche qui rappresentate da I’ve got it all. Il discorso si intensifica nella sezione “Corpi, storie, proteste” che si interroga sul rapporto tra individui e collettività: libertà, diritti, uguaglianza, convivenza si scontrano con oppressione, violenza, emarginazione, repressione attraverso resistenza, attivismo, protesta, denuncia nelle opere di artisti come Adrian Paci, Marinella Senatore, Shirin Neshat, José Regina Galindo, Andrea Bowers. Il punto focale al centro della sala è la scultura Kiss di Marc Quinn, l’abbraccio di due amanti che si baciano espande i canoni convenzionali di bellezza affidando al nitore del marmo di Carrara due corpi con disabilità. Si arriva così all’ultima sezione intitolata “Reverie”: una sorta di camera di decompressione, un filtro prima di reimmettersi nel traffico della propria mente e del tempo ordinario. Il tema è quello della sospensione, la pausa della piena coscienza, il rallentamento dei sensi e il riposo del corpo nell’abbandono del sonno, del dormiveglia o del vagabondare erratico dei pensieri. Una condizione di vulnerabilità ma anche di emersione di sogni e desideri e di contatto con il proprio io profondo che può preludere a cambiamenti, rinascite: l’arte ci conduce a una nuova comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.