di Maddalena Libertini
A Torino e a Genova due mostre per l’unica donna fondatrice dell’Impressionismo, una pittrice che ha abbracciato la radicalità della nuova arte senza mai arretrare e coltivato la propria libertà anche nella vita
La pittura era forse nel patrimonio genetico di Berthe Morisot (1841-1895), dato che discendeva alla lontana da Jean-Honoré Fragonard, il maggior artista della corte di Luigi XVI. Tuttavia, ancora nella seconda metà dell’Ottocento non era certamente considerato un mestiere per donne.
Berthe apparteneva a una famiglia altoborghese e con sua sorella Edma era stata educata alla pittura per volontà dei genitori, della madre in particolare. Non potendo accedere, appartenendo al genere femminile, all’École de Beaux Arts, erano stati scelti per loro maestri privati di tutto rispetto: Joseph Guichard, allievo di Ingres, per la pittura d’atelier, e Camille Corot per quella di paesaggio.
Fu proprio Guichard ad avvisare madame Morisot del suo possibile errore di giudizio nel voler avvicinare le figlie alla pratica dell’arte. Le due ragazze, infatti, avevano un vero talento, non erano dilettanti della domenica. “Vi rendete conto di quello che vuol dire? …questa sarà una rivoluzione, io direi quasi una catastrofe. Siete del tutto sicura di non maledire mai il giorno in cui l’arte … sarà la sola padrona del destino di due delle vostre figlie?”, le scrive. Alla soglia dei trent’anni, con il sollievo di sua madre, Edma si sposa con un tenente di vascello per diventare prima di tutto moglie e madre ma per Berthe il destino della pittura è segnato.
A circa 150 anni dalla nascita dell’Impressionismo la mostra “Berthe Morisot, pittrice impressionista” (fino al 9 marzo) alla GAM di Torino celebra il genio di questa artista, l’unica donna del gruppo: non un nome sconosciuto visto che la si ritrova menzionata in molti manuali scolastici ma decisamente meno nota dei suoi colleghi e amici Degas, Monet, Renoir e del suo mentore Manet. Organizzata con il sostegno del Musée Marmottan Monet di Parigi, e realizzata grazie a BPER Banca, la mostra, curata da Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, si avvale dei prestiti prestigiosi di 50 opere tra dipinti, disegni e incisioni e di uno scenografico intervento allestitivo di Stefano Arienti.
Le fa da contraltare fino al 23 febbraio un altro evento espositivo al Palazzo Ducale di Genova, “Impression, Morisot”, a cura di Marianne Mathieu.
Morisot e Édouard Manet si incontrano nel 1868 al Louvre dove lei sta copiando un dipinto di Rubens. Lei ha 27 anni, lui dieci di più, è sposato e nel 1863 ha dipinto La Colazione sull’erba con tutto quello che ne è conseguito. È assurto a leader carismatico di una manciata di artisti di una generazione più giovane – la stessa di Berthe –, insofferenti al gusto compassato della pittura accademica e glieli presenta insieme a Degas, Puvis de Chavanne e a scrittori come Émile Zola. Le chiede di posare come modella e ne fissa in dodici ritratti l’immagine dei lineamenti allungati, la massa degli scuri capelli raccolti in una acconciatura con alcune ciocche che scendono sulla fronte e i grandi occhi protagonisti del volto che lui fa diventare quasi neri. Occhi di cui Paul Valéry nel 1926 scriverà: “Berthe Morisot viveva nei suoi grandi occhi, la cui straordinaria attenzione alla loro funzione, alla loro costante attività, le dava quell’aria estranea, separata, che la separava da sé stessa. Straniera, cioè strana; ma singolarmente straniera – straniera, estranea per eccesso di presenza. Niente dà quell’aria di assenza e di separazione dal mondo come vedere il presente nella sua forma più pura”. Occhi che per l’artista impressionista sono il dispositivo attraverso cui riceve l’impressione della realtà scomposta nelle vibrazioni dei colori nella luce che poi riporta sulla tela.
La storia di Morisot e Manet ha il tratto letterario del romanzo francese, in cui due personaggi dal temperamento ardente, irrequieto e appassionato si ritrovano in un intreccio intenso di arte e sentimenti in cui lei finirà per sposare il fratello minore di lui, Eugéne. È difficile, quindi, separare la vicenda umana di Morisot da quella della pittrice e questo forse ha contribuito a metterne in secondo piano la qualità e il ruolo. In parte, però, separarle è anche sbagliato. Innanzitutto perché il rapporto con Manet ebbe un’influenza rilevante nell’evoluzione creativa di entrambi. Poi perché non il suo genere, ma la sua condizione femminile nel XIX secolo la rende una figura distintiva e unica. A Berthe saranno preclusi certi luoghi e certe frequentazioni, il suo status professionale di pittrice non sarà mai ufficialmente riconosciuto nei documenti e anche i suoi amici testimonieranno la difficoltà in quanto donna a farsi considerare altro da un amatore e affermare il proprio nome nel mercato dell’arte. Lei, che morirà nel 1895, dovrà attendere fino al 1892 per avere una prima personale in una galleria e il 1894 perché un suo quadro venga acquistato dallo stato francese per il Musée du Luxembourg su indicazione di Stephane Mallarmé, suo grande estimatore.
Di contro, in Morisot non vacillerà mai la consapevolezza del suo valore, dei suoi mezzi e del suo diritto a trovarsi in quella piccola schiera di ribelli, e non come una semplice partecipante ma come una figura di spicco. Nel 1872 vende all’importante mercante Paul Durand-Ruel un dipinto e tre acquarelli, fatto apparentemente piccolo ma che sancisce il fatto che lei è una professionista. Quello che per altri sarebbe stato mediamente facile e normale, per lei ha avuto l’asperità di una conquista. A partire da quel 15 aprile 1874 in cui gli impressionisti si raccolgono insieme per la prima volta nello studio del fotografo Félix Nadar come “Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs” decretando l’atto fondativo del movimento, Berthe è presente a tutte le otto esposizioni del gruppo eccetto una perché troppo a ridosso della nascita della figlia Julie. Di molte è organizzatrice e della settima finanziatrice. Espone anche a Londra, Bruxelles e perfino a New York. Ha la stima e il rispetto di Renoir, Monet, Degas che le sono vicini e sono colleghi con cui confrontarsi alla pari. Contribuiranno con Mallarmé e Julie a organizzarle nel 1896 il tributo postumo di una retrospettiva alla galleria Durand-Ruel con circa 400 sue opere, una sorta di consacrazione compensatoria.
Lei, di condizione sociale elevata e sempre finemente vestita, quando si autoritrae come fa all’apice della carriera nel 1885 rinuncia a ogni vezzo, l’abito sembra una giacca da lavoro e la decorazione floreale accennata si può confondere facilmente con delle macchie di pittura. Come nelle iconografie rinascimentali e barocche dell’artista con gli attrezzi del mestiere, tiene in mano tavolozza e pennello, a fugare ogni minimo dubbio su quella che lei sente essere la sua identità. Vent’anni prima la sorella Edma l’aveva ritratta nell’atto di dipingere, segno che la convinzione di Berthe era stata salda fin dall’inizio. I due quadri sono esposti rispettivamente e Torino e a Genova.
Nei testi scritti su Morisot sono ricorrenti gli aggettivi “indomita” e “indomabile”. I limiti, allora, non possono essere costrizioni a cui piegarsi, ma opportunità da cogliere. Se la dimensione femminile è la domesticità, allora il proprio studio può essere contenuto in un armadio del salotto in cui richiudere a fine giornata pennelli e colori. E se non può andare ai caffè a discutere con gli amici pittori, lo stesso salotto atelier si può trasformare, sia nella casa paterna che in quella matrimoniale, in un luogo in cui ospitare regolarmente un consesso di artisti e scrittori. Se la famiglia è la sfera in cui muoversi, è qui che può trovare i modelli privilegiati, la madre, le sorelle, il marito, la figlia, le nipoti, da far posare nell’intimità di scene private o nell’ariosità dell’en plein air. Se sono pochi gli uomini che le capita di poter raffigurare, l’universo femminile le è ben noto e ne sa valorizzare le sfumature, fissandolo in piccole attività quotidiane, momenti di riposo oppure nell’eleganza mondana degli eventi sociali.
Questi soggetti, queste tematiche, le sue sperimentazioni tecniche e la sua ricerca, che si è evoluta nel tempo per esempio nell’esplorazione della pratica del “non finito”, sono state organizzate nella mostra a Torino in quattro sezioni che accolgono i capolavori dell’artista. La sfera famigliare, i ritratti femminili, i paesaggi e giardini, le figure nel verde conducono nel percorso espositivo a un approfondimento dedicato alle opere su carta provenienti dal Musée Marmottan Monet che consentono di intravedere altri sprazzi dell’attitudine creativa di Morisot: nei lavori su carta, pastelli, acquerelli e disegni, negli studi preparatori così come nelle opere autonome, si ritrova la delicatezza e chiarezza di intenti che infonde su tela. L’esperienza di visita è punteggiata dal sottofondo dell’intrusione contemporanea di Stefano Arienti, chiamato a creare una “Risonanza d’artista” da Chiara Bertola, direttrice della GAM. Arienti ha interpretato l’invito inserendo carte da parati, dettagli d’arredo, elementi olfattivi, un tappeto trompe l’oeil di natura ed enfatizzando la dimensione tattile e materica con i suoi quadri di pongo e una bacheca di modelli ottocenteschi di frutta di Francesco Garnier Valletti, maestro della pomologia artificiale.
Altrettanto ricca, documentata e articolata è la retrospettiva genovese che, grazie alla collaborazione con il Museo di Belle Arti Jules Chéret di Nizza, propone anche un affondo sui due soggiorni in Riviera dell’artista negli inverni 1881/1882 e 1888/1889 e sull’influenza che la luce e la vegetazione mediterranee hanno esercitato sulla sua palette cromatica e, più in generale, sulla sua pittura. La rassegna dà ampio spazio alla figlia Julie, presenza predominante nei quadri, allieva e poi impegnata nella promozione e nella divulgazione del lavoro della madre. Documenti fotografici e d’archivio, i taccuini di schizzi e di memorie completano la ricomposizione a tutto tondo la figura di Berthe Morisot che si è trovata ad essere “estranea per eccesso di presenza”.